Scrolling ossessivo, confronto continuo con vite apparentemente perfette, paura di essere tagliati fuori: i giovani italiani affrontano sfide psicologiche senza precedenti. I numeri parlano chiaro: secondo gli ultimi dati dell’Istituto Superiore di Sanità, circa un adolescente su cinque presenta sintomi riconducibili a disturbi d’ansia o depressione, con un aumento del 30% rispetto al periodo pre-pandemico.
Secondo la psicologa Matilde Leonardi, direttrice del Centro di Neurologia dell’Istituto Besta di Milano: “Non stiamo parlando di semplice tristezza o stress temporaneo. Osserviamo forme di malessere profondo che compromettono le normali attività quotidiane, lo studio, le relazioni sociali”. Si tratta di un fenomeno che gli esperti definiscono ormai come un’emergenza sanitaria.
I social network sono sotto accusa, ma la questione è complessa. Da un lato, piattaforme come Instagram e TikTok espongono i ragazzi a standard irrealistici di bellezza, successo e felicità, alimentando sentimenti di inadeguatezza. Dall’altro, offrono spazi di espressione e comunità a chi si sente isolato nel mondo reale. Per Stefano Vicari, primario di Neuropsichiatria infantile all’Ospedale Bambino Gesù di Roma “Il problema non sono i social in sé, ma come vengono utilizzati e il tempo che sottraggono alla vita offline”.
La pandemia ha rappresentato un punto di svolta, aggravando situazioni già critiche. L’isolamento forzato ha privato gli adolescenti di esperienze fondamentali per lo sviluppo psicosociale proprio in anni cruciali per la formazione dell’identità. Il ritorno alla normalità non ha risolto automaticamente i problemi: molti giovani riportano difficoltà nel riprendere relazioni sociali dirette.
Il contesto socioeconomico contribuisce al disagio. I giovani italiani crescono in un Paese che offre loro poche certezze: precarietà lavorativa, difficoltà di accesso alla casa, disparità crescenti. Gli adolescenti, sempre più, immaginano il proprio futuro in modo incerto o pessimistico.
C’è poi il pregiudizio, ancora forte nonostante i passi avanti. Molti ragazzi esitano a chiedere aiuto per paura di essere etichettati come “problematici” o “deboli”. Le famiglie stesse faticano a riconoscere i segnali di allarme, confondendoli con le normali turbolenze adolescenziali.
Cosa fare? Le scuole stanno introducendo sportelli di ascolto psicologico, con risultati incoraggianti laddove ben implementati. Il Ministero della Salute ha lanciato programmi di prevenzione del disagio giovanile, anche se le risorse rimangono insufficienti rispetto alla dimensione del problema.
Il primo passo è parlarne apertamente, normalizzando le conversazioni sulla salute mentale. Per la Leonardi “Non dobbiamo patologizzare ogni difficoltà emotiva, ma nemmeno sottovalutare segnali persistenti di malessere”. La strada è lunga, ma la consapevolezza cresce. E questa è già una prima, fondamentale vittoria.