giovedì, 25 Aprile 2024
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“The Place” e altri saggi.

“Quando le riflessioni su un film materializzano la voglia di passare in biblioteca o da un libraio”.

Cinematograficamente parlando, già da non pochi anni, il cinema è sottoposto al tiro incrociato di un’agguerrita concorrenza di mercato e all’arrembaggio delle tv tematiche. La prima, dà origine a un’ampia selezione qualitativa (spesso) al ribasso, e le seconde, invece, istigano pigrizia al gusto di pop corn da poltrona di casa. Le conseguenze per il grande schermo nero sono evidenti: la vitalità di una pellicola in sala è brevissima e la scelta dei film in programmazione nelle città è bassissima. Ciò nonostante, non possiamo sottrarci alla sottile mutazione che “la macchina dei sogni” ingenera. Lo spettatore – anche non assiduo – di fronte a un film, fuori dal cinema, volta per volta si trasforma o in un’oltranzista sostenitore o in un censore seriale. In ogni caso, la voce data al libero sfogo dialettico è la sua e trova una pretesa giustificativa sul prezzo “non economico” d’ingresso alla Sala. L’inclinazione, pertanto, a questa critica “non convenzionale”, ma senza far torto e nulla togliere al valore della “critica vera”, è legittima e di grande interesse. Per questo motivo, a seguire, ospito le riflessioni sull’ultimo film diretto dal regista Paolo Geneovese, The Place, visto da un’appassionata spettatrice di cinema – Delia Altavilla – che ringrazio per il suo gentile contributo a Letterarea. Per poi concludere, in coda, con due suggerimenti di lettura, oramai due classici, che affrontano, con angolazioni diverse, il tema del Bene e del Male, visti con “relativismo soggettivo” dai protagonisti del film.

«“The Place”, il nuovo film diretto da Paolo Genovese, tratto dalla serie americana “The Booth At The End” (andata in onda dal 2010 negli Stati Uniti), pur ripercorrendone senza scostamenti, trama, ambientazione e personaggi, mancando così di originalità, ha però il pregio di farci appassionatamente discutere. Il tema trattato, di per sé universale, il

Una scena tratta dalla serie tv “The booth at the end”.

susseguirsi di fitti dialoghi, ben costruiti, e un cast di attori, di tutto rispetto nel panorama italiano (fra cui spicca Giulia Lazzarini nel ruolo della signora Marcella), garantiscono al film intensità, permettendo allo specchio usato dal regista di non esaurire la sua funzione nella pellicola. Non siamo più, come nel precedente film – “Perfetti Sconosciuti” – coinvolti in una rituale cena fra amici dove un banale, moderno gioco della verità si trasforma in un dramma individuale e collettivo. In “The place”, cioè “Il posto”, il regista Genovese, invece, crea un’atmosfera sospesa, apparentemente scevra da ogni preoccupazione estetica. Tempo, luogo e spazio si sottraggono ai lacci del reale per dar vita a una tavola calda, crocevia di anonimi passanti, ricca di arredi vintage; tra cui spicca un jukebox carico di vecchi 45 giri. Un’atmosfera, dunque, rarefatta, fruibile attraverso la penombra di una vetrina hopperiana. L’uomo protagonista, di cui non conosceremo mai il nome, è interpretato da un convincente Valerio Mastandrea. Presenza fissa della tavola calda, l’uomo-innominato attende – con

Un fermo pellicola di “The Place” (Valerio Mastandrea è l’uomo-innominato).

atteggiamento più da psicoterapeuta che da mago –, i propri clienti (sono otto, per l’esattezza, come nella serie televisiva) con strane richieste da dover esaudire L’anonimo protagonista tiene a fianco a sé una grossa simil-moleskine nera, che, una volta aperta, si vede intrisa di fitta scrittura. L’agenda nera, vero richiamo biblico, inframmezza “appunti di vita” dei clienti e, in conseguenza, “tributi-prove” di rimando che questi dovranno compiere; per ottenere soddisfazione alla richiesta. Con i caratteri di una penna si racchiude un patto a due, pertanto, e a rompere la perfetta simmetria, tra l’uomo e il suo cliente, tra il desiderio a una placebo-felicità rincorsa e la prova necessaria a realizzare il desiderio, ci penserà una brava Sabrina Ferilli; Angela nel film, che già nel nome tradisce il ruolo di specchio, di alter ego, che avrà per il protagonista. Potremmo inizialmente credere di trovarci di fronte a un moderno Mefistofele, ma niente di tutto questo. L’uomo-innominato appare piuttosto un demone laico e moderno. Trasfigurato in una maschera di fatica e stanchezza, oppresso da un peso quasi cosmico, che con un semplice “si può fare” chiede in cambio prove estreme. Lo scopo è quello di mettere a nudo la natura umana, il libero arbitrio di ciascuno, loscillare tra bene e male non come entità al di fuori di noi. Il dualismo nella lotta titanica tra Bene e Male si gioca, quindi, dentro luomo e non in un altro “non luogo”, come, fra l’altro, vuole la tradizione monoteista. Per questo l’uomo-innominato non è disposto a fare nessuno sconto. Le prove-tributo richieste sono atroci e tutte subordinate alla regola del contrappasso: uccidere, compiere violenza, rubare o predisporsi a una strage per una felicità-placebo tasformata in morfina che intossica. Come del resto ci insegna Saramago in “Cecità”, però, non si può sapere in anticipo di cosa siano capaci le persone, “è il tempo che comanda” e al di là del finale, che resta aperto, il regista Genovese ripercorre le molteplici tradizioni che accolgono il nesso mistico tra l’immagine speculare e l’oggetto fonte dell’immagine. Mi piace concludere sottolineando che nella tradizione indiana politeista lo specchio è un simbolo della verità (Delia Altavilla)».

.Lo scopo del film, come scrive la nostra amica in precedenza, è, dunque, «mettere a nudo la natura umana». In merito, Friedrich Wilhelm Nietzsche, filosofo e scrittore tedesco, nella sua prima pubblicazione:del 1886 di “Jenseits von Gut und Böse” ragiona su tale natura e afferma che «al nostro istinto più forte, al tiranno che è in noi, non si sottomette solo la nostra ragionevolezza, ma anche la nostra coscienza». Questo libro, tradotto in italiano, è “Al di là del bene e del male” e come per ogni saggio ne segue le sorti; classificato dai più di notevole interesse, ma mal concialiante all’intrattenimento in lettura. Egualmente, però, sull’onda delle suggestioni da film, si insiste a suggerirne il ripescaggio, ricorrendo alla Piccola Biblioteca Adelphi, per la traduzione di Ferruccio Masini. E non è tutto, perché per rimanere, ancora una volta, alle riflessioni di Delia, c’è «il libero arbitrio di ciascuno» che agisce e che, talvolta, se ci si pensa, può essere distorta dall’obbedienza cieca e crudele “dello stupido manichino” (nel caso diThe Place “lo stupido manichino” è l’illuso, che crede la felicità a portata di mano una volta tolta “crudelmente” ad altri, nd.r). Se si vuole approfondire quest’aspetto, anche in questo caso con un saggio – un po’ sui generis e di ampiezza storica, perché diario-reportage di un famoso processo ad un alto gerarca naziasta in Israele -, si suggerire la riscoperta di Hannah Arendt, filosofa e storica nonché scrittrice e giornalista di origini ebraiche, dal titolo “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” (Universale Economica e Saggi Feltrinelli, traduzione Pietro Bernardini, pagg.320). Giunti a questo punto, qual è dunque il nostro limite umano? Concludo con una possibile risposta, proprio della Arendt: «quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale».

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